(foto: Subel Bhandari/picture alliance via Getty Images)
Il 16 agosto la Fondazione Pangea Onlus ha pubblicato un video che mostra alcune attiviste in Afghanistan intente a distruggere i documenti relativi alle proprie attività lavorative. “Bruciamo il lavoro di 20 anni perché nulla possa mettere a rischio la vita delle decine di migliaia di donne e bambini che abbiamo aiutato e stiamo aiutando” recita la caption del video.
La situazione in Afghanistan è fortemente compromessa. Come ricordato dal segretario generale delle Nazioni Uniti Antonio Guterres esiste un serio rischio di violazione dei diritti umani, specialmente contro donne, minoranze, intellettuali, giornalisti e attivisti.
Per questo Pangea non è l’unica realtà corsa ai ripari negli ultimi giorni.
La caduta del governo afghano e la presa del potere da parte dei talebani hanno generato una corsa alla damnatio memoriae. Molti afgani che negli anni hanno collaborato con le forze occidentali o hanno ricevuto aiuti ora temono di essere etichettati come collaborazionisti e di subire ritorsioni sistematiche.
La paura è ben diffusa nonostante i numerosi appelli dei talebani alla calma e le loro promesse di non voler organizzare alcuna rappresaglia.
Tra le principali preoccupazioni della popolazione civile ci sono le informazioni conservate nei telefoni. Reuters ha riportato le esperienze di vari cittadini afghani che stanno tentando disperatamente di cancellare dai propri dispositivi video, foto e documenti che possano ricondurli in qualche modo ai paesi occidentali. È il caso di molti traduttori e fixer che negli anni hanno lavorato sul campo per conto di ong e testate giornalistiche europee o nordamericane.
Migliaia di cittadini hanno cancellato i propri account sui social network.
Wired Uk ha intervistato Muhibullah, un traduttore trentenne afghano ex collaboratore dell’esercito statunitense che ha bruciato i documenti che attestavano il suo lavoro. A tal proposito, l’agenzia governativa statunitense Usaid ha inviato una mail ai propri collaboratori afghani per spiegare loro come rimuovere foto o contenuti potenzialmente pericolosi.
Ma ciò che più spaventa gli afgani sono i dati biometrici. L’ong Human Rights First ha scritto su Twitter di aver appreso che i talebani sono in controllo di database biometrici, che con ogni probabilità includono l’accesso ad archivi di impronte digitali, riconoscimento dell’iride e facciale.
La stampa locale afghana già cinque anni fa riportò che i talebani erano in grado di utilizzare i database biometrici del governo per dare la caccia a membri delle forze di sicurezza. Oggi si teme un’applicazione sistematica di simili procedure contro la popolazione civile.
Human Rights First ha pubblicato una guida in lingua Farsi per spiegare come cancellare la propria storia digitale. Già un anno fa la guida fu utilizzata dagli attivisti di Hong Kong. Insieme alla guida, l’ong ha pubblicato anche un manuale per eludere le rilevazioni biometriche. Tra le indicazioni suggerite vi sono quelle di guardare in basso e truccarsi applicando numerosi strati di make-up.
Rimangono però grandi difficoltà rispetto a riconoscimento dell’iride e delle impronte digitali. “I dati rendono difficile oscurare l’identità delle persone e possono essere usati per tracciare la rete di contatti delle persone”, ha spiegato Welton Chang, chief technology officer dello Human Rights First.
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Una delle soluzioni potrebbe essere l’attivazione di corridoi umanitari in grado di portare in salvo chi rischia la vita. Già a giugno – quasi due mesi prima del tracollo totale dell’Afghanistan – l’Italia ha terminato l’Operazione Aquila I, grazie alla quale sono atterrati sul suolo italiano 228 tra collaboratori e loro familiari. Si tratta soprattutto di interpreti la cui effettiva collaborazione è stata ampiamente documentata e verificata.
Oggi dovrebbero arrivare a Roma altre 85 persone dall’Afghanistan.
I militari stimavano la presenza di circa 1500 persone da evacuare. Per questo all’operazione Aquila I – coordinata dai Ministeri degli Esteri e degli Interni – ha fatto seguito l’operazione Aquila II, attiva ma ancora non terminata. Aquila II ha reso operativo un team rinforzato dedicato ad agevolare le operazioni di recupero, e identificazione per l’arrivo in Italia di altre 391 persone.
In un appello pubblico a Mario Draghi, Il Giornale ha denunciato l’esistenza di “lentezze burocratiche e nei controlli, scaricabarile fra ministeri coinvolti (Difesa, Esteri, Interno), difficoltà degli afghani di reperire i documenti, a cominciare dal passaporto” che nel complesso “hanno lasciato nel limbo dozzine di collaboratori”. Secondo Il Giornale nel frattempo le domande degli afghani sarebbero aumentate, superando ampiamente le duemila unità a causa del degenerare della situazione.
“L’impegno è massimo da parte della Difesa per evacuare chi ha collaborato con l’Italia” ha detto il ministro della Difesa Lorenzo Guerini. Il Presidente del Consiglio Mario Draghi ha confermato che “Sul campo ci sono ancora delle squadre militari e dei diplomatici che dovranno aiutare l’evacuazione dei nostri concittadini, dei collaboratori afghani e delle loro famiglie”.
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